
di Maurizio Casu
Raccontava sempre di una spiaggia deserta, di un luogo segreto. L’acqua era talmente pulita che a nuotarci dentro pareva di volare. Trasparente come l’aria. Grossi pesci si avvicinavano senza alcuna paura ai fortunati bagnanti. Solo quattro persone conoscevano esattamente la posizione della piccola caletta e come arrivarci. Solo quattro. L’ultimo, prima di spirare, pronunciò a fatica due parole. Mistero e fotografia. Era mio nonno. Quattro persone erano morte e con loro il segreto della misteriosa spiaggia. La fotografia era senz’altro quella incorniciata ed appesa in salotto che vedeva in posa tre amici, il quarto era l’autore dello scatto. Rimaneva il mistero. L’ubicazione del meraviglioso, segreto ed inaccessibile luogo. Il nonno era morto da quasi un anno ormai, ma tutti parlavano di lui come se fosse presente a tavola. Ricordavamo a turno i suoi mirabolanti racconti e le fantastiche avventure. Il discorso cadeva sempre ed inevitabilmente sul misterioso luogo tanto caro al vecchietto. La nonna, con fare solenne, indicava qualcosa sulla parete opposta. La fotografia. Bianco e nero. Tre ragazzi erano immersi nell’acqua fino al busto e alle loro spalle si scorgeva una piccola spiaggia sovrastata da una collina fitta di macchia mediterranea. “Dovremmo cercarlo quel posto!” blaterava mio cugino al quarto amaro. “Nessuno sa dove si trova” bisbigliava la nonna. In quel momento, imbarazzato da troppe attenzioni, un chiodo cedeva. Una caduta rovinosa. Il vetro in frantumi. La cornice divelta. I commensali impietriti. Uno, due, tre… stella! La nonna provava ad alzarsi ma ricadeva sulla poltrona. “Quel burlone del nonno!” Ridacchiava. Un via vai di scope e palette. “Bambini, attenti al vetro!” I bambini erano euforici, divertiti da quello strano gioco. Dalla cornice divelta sbucava fuori un foglio scritto a mano. “Nonna, una mappa! una mappa del tesoro!” Il mio sogno terminava e ripartiva, sempre uguale. Rewind, play, rewind, play. La nonna provava ad alzarsi, il chiodo cedeva, i bambini giocavano. Uno, due, tre… La sveglia suonò a lungo prima che mio cugino spaccasse il vetro della finestra con un masso. Mario, mio cugino, alle cinque di mattina. Il sogno, il mio sogno, era reale. Davvero avevamo una mappa, un giorno di ferie e un’avventura da vivere. Mi preparai velocemente, infilai nello zaino due panini con il salame e rimasi un attimo a guardare il vetro rotto. “Eri in ritardo, non volevo disturbare nessuno e ho pensato di svegliarti con un sassolino alla finestra, come nei film!” Pantaloncini in jeans, camicia hawaiana e bandana. Sdraiato sul cofano dell’auto. Fiat 126. La mattinata non era iniziata nel migliore dei modi ma l’entusiasmo di Mario era contagioso, così, dopo aver rotto una fioriera in retromarcia partimmo per il nostro viaggio iniziatico. Ci fermammo in un bar a fare colazione. Mentre sorseggiavo un caffè ripassavo la mappa del nonno. La prima parte era semplice, seguire la strada statale, svoltare a destra, sinistra, ancora sinistra e poi andare a piedi, per chilometri! Un uomo mi osservava. Piegai la mappa, pagai il conto e mi incamminai verso il rifornitore di fronte al bar. Mio cugino faceva il pieno di benzina finanziato dalla nonna. Un uomo mi seguiva. Voleva la mappa? Voleva rapinarci? La sua voce tuonò nel silenzio della strada semideserta. “Scusa, hai da accendere?” L’auto filava via lungo la statale con i finestrini abbassati, la radio cantava… “Bevila perché è Tropicana, ye!” “… non ti senti come al ci-ne-ma?” Ci sentivamo come al cinema quando una ruota esplose e finimmo in cunetta. Erano le dieci oramai. Mario mangiava un panino seduto sul guard rail mentre io cambiavo la gomma. “Vuoi una birra?” Arrivammo al punto indicato sulla mappa intorno a mezzogiorno. Punto di partenza. Un vecchio mulino dismesso, diroccato. Dietro le rovine un bosco e in lontananza una collina. La collina della fotografia? Lasciammo l’auto a riposare in prossimità delle rovine. Zaini in spalla e borsa frigo, ci inoltrammo nel bosco. La temperatura era gradevole, mitigata dalle fronde fitte degli alberi. Non esisteva un sentiero tracciato, cercammo di seguire la mappa proseguendo in linea retta, per quanto fosse impossibile non deviare di tanto in tanto a causa di rovi invalicabili. Dopo un’ora di cammino ci fermammo in prossimità di un lago. “Vuoi una birra?” Mario era l’addetto alle bevande e aveva portato solo birra, neanche un goccio d’acqua. L’avventura iniziò a trasformarsi in incubo quando, decisi a rimetterci in cammino, finimmo dentro una pozza di fango. Riuscimmo ad uscirne perdendo uno zaino, la borsa frigo e la mappa! Esausti, sporchi e di malumore ci ritrovammo a scalare la collina. Ruzzolai giù almeno tre volte. Anche senza indicazioni la nostra meta doveva essere vicina. L’orologio segnava le quindici. Ci addormentammo per un po’ sotto un alberello. Sognai il nonno, la fotografia, il chiodo che cedeva, i bambini che giocavano. Uno, due, tre… Stella! “Stella, vieni qua!” Qualcosa mi leccava la faccia. Un cane. Mi svegliai di soprassalto. Mio cugino disperato urlava. “Basta! Andiamo via!” Una musica. Una musica arrivava spinta dal vento. Iniziai a correre, ad arrampicarmi, come un disperato, inseguivo la melodia, ancora pochi passi. Uno, due, tre… Mi fermai in punta alla collina. Mario dietro di me, ansimava. Uno, due, tre… Spalancammo gli occhi. Il mistero si palesava di fronte a noi. La spiaggia, l’acqua cristallina, il profumo di crema solare, il chiosco, il cane, centinaia di bagnanti, il parcheggio, la strada… e quella musica.
“Cosa resterà di questi anni ottanta…chi la scatterà la fotografia?”
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