L’altra parte

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di Maurizio Casu

Capitolo uno di uno.

Un lavandino, una sedia e uno specchio contornato da luci fulminate a intervalli, senza logica. Un essere guarda lo specchio in silenzio. Vecchi manifesti appesi al muro, spettacoli passati che diventano carta da parati e sedimentano nelle menti degli attori mutando in esperienza. Un essere guarda lo specchio, si osserva. Al posto della faccia ha una maschera da piccione su un abito nero, impeccabile. Giacca, cravatta nera, camicia bianca e una macchia rosso sangue che si spande all’altezza del cuore. Lo stanzino puzza di muffa, è molto piccolo. Il lavandino è spaccato su un lato, il rubinetto aperto fa colare rivoli d’acqua sul pavimento e sulle mani del misterioso ospite. Il flusso si trasforma in goccia fino a cessare completamente. Un brusio penetra attraverso le fessure della porta, voci confuse ballonzolano qualche secondo e poi cadono giù come la polvere illuminata dalle poche luci rimaste allo specchio.
Mio nonno andava in teatro a vedere lo stesso spettacolo almeno due volte, diceva che non potevano esistere due scene uguali, qualche particolare differiva sempre.
Immagino che sotto questa maschera ci possa essere un grande attore, un uomo importante, un uomo migliore. La sfilo per sciacquarmi il viso e penso a quella volta in cui vidi un piccione che girava intorno al suo compagno appena investito da un’auto. Non si voleva arrendere di fronte all’ineluttabilità della morte. Ho ancora una macchia di sangue sul petto, non so se rimettere la maschera, è me che vogliono o il personaggio che interpreto? Ora devo andare, è lui che vogliono!
Qualcuno bussa alla porta, l’uomo si alza, si osserva ancora un attimo allo specchio, poi con fare deciso si gira di scatto e va ad aprire. Nessuno nel corridoio. Tiene la maschera in mano e con passo deciso percorre il rettilineo fermandosi davanti a una grande tenda. Velluto rosso, pesante. Dalle quinte scorge il sipario aperto, è illuminato a giorno. Indossa la maschera da piccione e ancora gli torna in mente quella scena. Un volatile al suolo, morto o morente. Si dice che gli animali non abbiano la consapevolezza di dover morire tranne alcune rare eccezioni, ma un piccione non è un elefante e non si arrende, non si capacita di fronte all’ineluttabilità. Scosta la tenda. Cinque passi e si trova al centro del palcoscenico. Spalanca le braccia e viene investito da un boato. Standing ovation. Un inchino, poi un altro e infine un terzo. Cinque passi, una tenda, toglie la maschera e si avvia dall’altra parte.

pistola agguato_950x551Capitolo due di uno.

Un lavandino, una sedia e uno specchio contornato da luci colorate. Un essere guarda lo specchio, si osserva. Ha una maschera da piccione su un abito nero, ansima. Giacca, cravatta nera, camicia bianca e una macchia rosso sangue che si spande all’altezza del cuore. Lo stanzino è molto piccolo. Il lavandino è spaccato su un lato, il rubinetto aperto fa colare rivoli d’acqua sul pavimento e sulle mani del misterioso ospite. Urla e latrati penetrano attraverso le fessure della porta, voci confuse rimbalzano sorde sulle quattro mura.
Immagino che sotto questa maschera ci possa essere un grande attore, un uomo importante, un uomo migliore. La sfilo per sciacquarmi il viso e penso a quella volta in cui vidi un piccione che girava intorno al suo compagno appena investito da un’auto. Non si voleva arrendere di fronte all’ineluttabilità della morte. La macchia di sangue si allarga sul petto, bell’effetto di scena. Non so se rimettere la maschera, è me che vogliono o il personaggio che interpreto? Non ha importanza.
L’uomo si alza, si osserva ancora un attimo allo specchio, poi con fare deciso si gira di scatto e va ad aprire la porta. Nessuno nel corridoio. Tiene la maschera in mano e con passo deciso percorre il rettilineo fermandosi davanti a una grande tenda. Velluto rosso, pesante. Dalle quinte scorge il sipario aperto, è illuminato a giorno. Gli torna in mente quella scena. Un volatile al suolo, morto o morente. Getta la maschera. Scosta la tenda. E’ me che vogliono. Cinque passi e si trova al centro del palcoscenico. Infila una mano in tasca ed estrae una pistola. Latrati di cani, vociare di persone e la macchia di sangue che si allarga sul petto. Un passo in avanti zoppica e ansima. Tende il braccio e mira al pulviscolo illuminato dai fari, non è semplice, danza. Le voci fanno vibrare l’aria, urlano e abbaiano. Un colpo, poi un altro e infine un terzo. L’abito nero, la camicia bianca e una pozza di sangue.
Mio nonno andava in teatro a vedere lo stesso spettacolo almeno due volte, diceva che non potevano esistere due scene uguali, qualche particolare differiva sempre.
I riflettori si spengono, l’attore si rialza e va via, dall’altra parte.
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